Gaza Freestyle Festival e lo skateboarding nella striscia di Gaza
Lo skateboarding è un fenomeno mondiale ed è praticato ormai ovunque, ma quello che forse non tutti voi sanno è che un territorio martoriato dalla guerra come la Palestina abbia due skatepark, entrambi nati e realizzati grazie ad un progetto tutto italiano, il Gaza FREEstyle Festival.
Abbiamo intervistato Milo Todeschini, Matteo Varesi, Daniele Lamanna, alcuni dei fondatori del progetto Gaza Freestyle Festival
All’epoca in cui li contattammo per un intervista si trovavano in Palestina per dare vita al secondo skatepark di Gaza, all’interno di un grande parco dedicato ai giovani. Quest’area, nei pressi di Beit Hanun presso il confine nord, è stata oggetto di frequenti bombardamenti: per questo motivo il progetto del parco prende il nome di Green Hopes, “Verdi speranze”.
“Le ragazze e ragazzi del Gazafreestyle lo scorso Gennaio hanno dato vita alla quarta edizione del festival iniziato nel 2015. Grazie all’intervento ed allo spirito della GFF crew abbiamo fatto conoscere lo skateboarding anche tra queste mura, con la costruzione di due mini in legno e di un primo skatepark in cemento nel porto di Gaza, in questa edizione abbiamo iniziato la realizzazione di un altro parco con ambizioni piu alte nel nord della striscia. Qualche piccola crew di skateboarder è nata all’interno di questo luogo, non possiamo far altro che alimentarle con il nostro intervento e il vostro aiuto.”
Voi insieme ad altri tre operatori partecipaste al primo festival, portando nel 2015 le prime tavole da skate a Gaza. Perché lo skate a Gaza? Cosa avete trovato? Dove avete lavorato nella prima edizione?
Quando siamo entrati dopo l’ultima operazione militare israeliana denominata “Margine protettivo”, l’intero territorio della Striscia si presentava completamente straziato da un attacco che ha fatto più di 1400 morti (metà dei quali bambini). La città era animata da numerosi carretti trainati da vari animali, i bimbi correvano scalzi per le strade… il ronzio dei droni che controlla tutta l’area risuonava incessantemente nelle orecchie, le case e i palazzi crivellate dai colpi di mortaio aprivano il sipario sulla miseria che le guerre moderne (quelle in cui la lista delle vittime tra i civili supera di gran lunga quella dei militari) lasciano dietro le loro spalle indifferenti.
Gaza è una prigione a cielo aperto grande 365 chilometri quadrati, dove una popolazione civile giovanissima (il 75% della popolazione ha meno di 25 anni) viene di fatto segregata dal 2008. Dopo anni di lotta politica e di viaggi a supporto della resistenza Palestinese, alcuni di noi hanno espresso il desiderio di provare un percorso nuovo, di realizzare qualcosa di concreto, che rimanesse al nostro ritorno. Lo skateboarding è stato scelto come strumento per fondare uno scambio culturale solido (basato quindi sulla condivisione di una pratica) con i ragazzi gazawi: da qui la scelta nel 2015 di costruire una prima minirampa nel quartiere di Al Tofah, uno tra i più poveri e martoriati della Striscia.
Fin da subito i giovani della città hanno accolto lo skateboarding con entusiasmo: quasi subito si sono formate delle piccole crew (che loro chiamano “team”) di skaters e bladers.
Abbiamo scelto lo skateboarding (insieme ad altre pratiche legate al mondo del freestyle) per provare ad aprire un nuovo spiraglio sul mondo, per portare a Gaza qualcosa che potesse rendere partecipi anche questi giovani dell’evoluzione di una cultura globale. Crediamo nello skateboarding e nel freestyle come strumenti di comunicazione non verbale: un cavo d’acciaio che possa tenere ancorate al “fuori” le giovani generazioni della Striscia. Vorremmo dare la possibilità a chi vive tra le invalicabili mura della città di condividere un percorso di scambio e di condivisione: la passione per lo skateboard non la ferma nessuno, nemmeno le bombe.
Adesso avete uno skatepark nel piazzale del porto di Gaza, nell’agosto 2017 avete iniziato i lavori proprio in quell’area. Come è stato l’inizio? Cosa pensavano I Gazawi dello skate?
È stato davvero difficile lavorare in arabo-inglese con una popolazione culturalmente tanto differente. Sebbene i palestinesi siano un popolo schiacciato da un nemico in comune (l’esercito israeliano), non è stato affatto semplice costruire con loro e tra loro un livello di coesione sufficiente a garantire la buona riuscita del progetto. Nonostante questo l’entusiasmo che i ragazzi hanno dimostrato con l’impegno e il sudore hanno di fatto reso possibile la realizzazione della prima minirampa in legno della striscia di Gaza. Grazie al centro Vik e ai suoi collaboratori siamo riusciti a reperire i materiali necessari (adeguati per quanto scadenti) per la costruzione della rampa in legno. Fin da subito abbiamo riscontrato la massima disponibilità in tutte le persone con cui abbiamo stretto legami, sia professionali che personali.
A Gaza l’unica traccia dello skateboarding che abbiamo trovato sul territorio, era una rampa in disuso a Kan-Younis, un quartiere nella zona Sud della Striscia. Le poche persone che avessero idea di cosa fosse uno skateboard avevano visto qualcosa su internet. Molto più diffuso era ed è tutt’ora l’utilizzo dei pattini inline, più adatti per rideare anche le superfici spesso sconnesse di una città sempre sotto i bombardamenti.
Volevamo dar vita ad un luogo dedicato allo skateboarding situato in una posizione centrale, visibile: per questo abbiamo individuato nel piazzale antistante al porto l’area più adatta. Nonostante fosse sconosciuto ai più, lo skateboard ha affascinato molti ragazzi, alcuni dei quali hanno iniziato a provare i trick con determinazione e costanza. Ad oggi possiamo dichiarare che ci sono degli skateboarder a Gaza.
Nel 2018 il gruppo skate si adopera per sostituire le rampe di legno con un vero e proprio skatepark in calcestruzzo armato. Quando siete andati nel 2018 eravate proprio nel mezzo della “marcia del ritorno”. Raccontateci le situazioni che avete trovato? I lavori erano possibili tutti i giorni?
Il passaggio dal legno al calcestruzzo armato avviene in concomitanza con la ripresa della marcia del ritorno. Abbiamo scelto questo materiale perché il legno della vecchia rampa del porto, dopo meno di un anno, si era deteriorato al punto da rendere inutilizzabile la struttura (la prossimità al mare ha corroso la pannellatura in pochissimi mesi). Volevamo estendere la longevità del nostro sforzo collettivo. Volevamo costruire qualcosa che restasse… che Resistesse negli anni: un monumento vivo, un ponte fatto di calcestruzzo armato e cultura che potesse tenere connessi due mondi, quello fuori e quello dentro le mura di Gaza.
L’inizio della grande protesta che unisce i gazawi in quella che viene definita “marcia del ritorno” (durata poco meno di un anno) coincise con il nostro arrivo. Questa lunga azione di protesta, che vede migliaia di cittadini gazawi riversarsi ogni giorno a ridosso del muro per chiederne la demolizione, non si è fermata per tutto il tempo che abbiamo trascorso laggiù. Il nostro lavoro in questo senso è stato molto difficile: il subbuglio generale rendeva più pericolosa la nostra posizione, per questo abbiamo dovuto lavorare sotto scorta e con limitate libertà di movimento.
Numerose le occasioni in cui la polizia ha fermato i lavori: a volte per un non meglio precisato “permesso mancante” a volte semplicemente perché non stavamo troppo simpatici allo sbirro di turno. Di venerdì, il giorno in cui le proteste si intensificavano maggiormente, alcuni di noi lasciavano le attività (lo skatepark è solo una delle tante) per partecipare alle proteste sotto il muro. Nonostante i pochi giorni a disposizione e tutte le problematiche del caso, siamo comunque riusciti a completare una discreta porzione dello skatepark del porto, che abbiamo poi ampliato lo scorso anno durante i lavori presso il grande progetto del parco “Green Hopes”. A Febbraio dovremmo tornare per concludere entrambi i lavori.
Sono passati sette anni dalla vostra prima “missione”, i ragazzi e le ragazze sono gli stessi? Qual’è la maggiore difficolta nel rapportarsi con una cultura differente da quella europea e costretta a vivere assediata da un nemico esterno e sotto un regime militare islamico?
Il nostro lavoro è stato spesso ostacolato sia dal regime militare di Hamas che dal governo israeliano… sia in ingresso, sia durante la nostra permanenza e a volte anche in uscita. Ci è stato vietato di portare materiali speciali da costruzione e alcuni strumenti: in qualche occasione è addirittura capitato che le macchine fotografiche o le telecamere venissero danneggiate o svuotate durante i controlli in uscita presso la struttura israeliana di Herez. All’interno della Striscia, mettere d’accordo i vari ministeri locali o richiedere i permessi necessari ha notevolmente rallentato il nostro lavoro, costringendoci a continuare i lavori fino alle ultime ore prima della nostra partenza. Fortunatamente oltre a ritrovare gli stessi ragazzi di sempre, con i quali il rapporto di amicizia è ormai piuttosto solido, ad ogni nostro ritorno incontriamo facce nuove. Ovviamente c’è anche qualcuno che col tempo si perde, anche se spesso succede perché hanno trovato lavoro, o perché sono scappati “fuori”… con alcuni “evasi” abbiamo ancora un contatto molto stretto: Roger ed Enneni ad esempio, due tra i compagni più stretti della nostra crew, sono riusciti a raggiungere a piedi la Grecia (affrontando pericoli per noi inimmaginabili). Adesso entrambi lavorano laggiù (Roger lavora addirittura per la cooperazione locale, contribuendo alla gestione dei campi profughi) e sperano un giorno di poter raggiungere l’Italia per venirci a trovare.
Come mai a Gaza le discipline di strada vanno cosi forte? Come ci vede la parte più religiosa?
Quello che manca a Gaza è proprio la libertà; è in questi luoghi che le persone hanno più bisogno di esprimersi e meno possibilità di farlo. Crediamo che la voglia di alcune persone di ribellarsi alle rigide regole imposte dalla loro condizione, sia cosi potente da sviluppare in esse una forza di volontà espressiva tale, da fargli dimenticare molte conseguenze delle proprie azioni: in altre parole i ragazzi gazawi si lanciano sui trick come i salmoni controcorrente (e di conseguenza imparano). Le arti della strada gli permettono di esprimersi per quello che sono.. e a volte, con il passare degli anni, questi esseri umani in evoluzione, questi “freestyler” hanno preferito rischiare la vita abbandonando la Striscia, alla ricerca di un luogo meno oppressivo per esistere… senza per forza dover resistere…
In pratica siamo gli unici giovani volontari che continuano ad oltrepassare il confine di Herez (tra mucchi di tavole e gruppi di giocolieri) per continuare a raccontare e supportare la resistenza palestinese.
Tra i musulmani più ortodossi, come si può facilmente dedurre, il nostro intervento non è visto nel migliore dei modi. Come Gaza Freestyle Festival il nostro obiettivo latente è sempre quello di costruire le condizioni per realizzare (in maniera più o meno accettabile dal regime) dei momenti di convivialità all’aperto, piccoli e grandi “festival” appunto, in cui uomini e donne possano stare nello stesso spazio divertendosi insieme. Considerate che a Gaza è praticamente proibita in pubblico tutta la musica “non sacra”, è vietato ballare in giro e le donne non possono nemmeno fare sport o allenarsi in giro. Noi gli organizziamo i mini-festival di straforo… a volte si incazzano parecchio. Quest’anno siamo riusciti a permettere alle ragazze gazawe di skateare pubblicamente al porto con le nostre paladine Marta Pruni e Cristina La Kre Vardanega; non siamo visti bene, ma forzare è anche un nostro modo di operare. Tuttavia la maggiornaza dei volti e degli sguardi che abbiamo avuto la possibilità di incontrare (Hamas, sbirri e militari compresi) si sono sempre sciolti in una espressione di stupore e rispetto per il nostro lavoro. Insomma Odi et amo come scriveva Catullo.
Spendete soldi di tasca vostra e vi giocate le vacanze per andare a Gaza a costruire skatepark, cosa vi spinge a tutto questo? Quale messaggio volete dare agli skateboarders che ci leggono?
Noi amiamo Gaza e siamo vicini al popolo palestinese, che sta vivendo anni sempre più tragici. Facciamo qualcosa che amiamo e crediamo a tal punto in questo progetto da investire quello che ci rimane tra tempo e finanze per provare a realizzarlo. Crediamo che lo skateboard sia uno strumento in grado di rompere le barriere razziali e di genere, quelle mentali e quelle fisiche. Crediamo che Tutti debbano potersi muovere liberamente, senza doversi porre il problema dei confini (linee immaginarie tracciate sulle carte dei potenti), per poter skateare con tutti, dovunque: per questo veniamo fin qui, per dimostrare che anche Gaza è piena di spot e di potenziali compagni di session. L’appellativo “skateboarder” si riferisce ad un individuo con determinate caratteristiche (spesso tendenti all’autismo) ed una storia di bestemmie dall’asfalto, fratture e spot memorabili: non importa da dove vieni o di che colore sei, non importa se sei uomo o donna, se ascolti hip hop, punk o le Spice Girls, perché imparare dei trick è un po’ come farsi un mazzo di chiavi che danno accesso ad una “comunità” globale che parla lo skateboarding.
Lo scorso anno il Gaza Freestyle Festival è entrato nella Striscia con una carovana di circa 40 operatori: com’è andata? Avete intenzione di partire anche in questa situazione di pandemia?
L’idea di entrare con 40 operatori fu dettata da due scelte: per prima cosa più sono le persone che attraversano il confine di Herez, più saranno i testimoni diretti di quello che è successo e che succede dentro Gaza; la seconda è una decisione operativa: se da un lato infatti una parte del progetto è finanziato con le quote dei singoli partecipanti, lo scorso anno le ambizioni erano tali da necessitare un numero di operatori più ampio. Com’è andata? Benissimo! Abbiamo avuto un gruppo cucina che con Chef Rubio ha fatto irruzione in due prigioni di Gaza per fare preparare il pranzo e mangiare insieme, il gruppo donne ha contagiato tutti gli altri, affiancando dei contenuti discussi con le donne gazawe, durante interminabili assemblee, alla pratica dei singoli gruppi di lavoro; giocolieri e circensi hanno organizzato eventi, imparato pratiche nuove (quest’anno avevamo anche i funamboli e i clown), scoperto talenti incredibili; il gruppo rinominato “Foodball” ha perso con enorme dignità tutte le partite organizzate con le squadre gazawe, dimostrando tuttavia un grande spirito di abnegazione durante i pranzi e le cene organizzate in loro onore: grandi ragazzi, campioni del “terzo tempo”; i nostri artisti-graffitari hanno disegnato i muri di mezza città; il gruppo skate è riuscito ad ampliare una parte dello skatepark al porto. La carovana dei quaranta sarebbe stato un successo totale se non fosse stato per lo skatepark di Beit-Hanun e del Green Hopes, il parco in cui abbiamo iniziato a costruirlo. Purtroppo le difficoltà, il maltempo, la chiusura degli scambi commerciali (e quindi l’esaurimento delle scorte di calcestruzzo), le epidemie di diarrea che hanno bloccato a turni alterni praticamente tutti… alla fine abbiamo sforato i tempi del nostro visto e siamo stati costretti (pena il rischio di non poter tornare mai più) a tornare prima di aver concluso il lavoro.
Per questo, proprio in questi giorni, ci stiamo organizzando per tornare nella Striscia, nonostante il Covid, per terminare il lavoro sul quale i nostri “compagni a rotelle” stanno letteralmente “sbavando” da un anno: a Gaza non spuntano certo tutti i giorni degli skatepark da 1000 metri quadrati… immaginate che fotta devono avere i nostri amici! Tocca tornare per forza e il prima possibile.
Qualche giorno fa abbiamo spedito giù un mezzo container di materiale per lo skateboarding… la quantità di materiale che abbiamo raccolto quest’anno è stata commovente. La scena della nostra penisola (e non solo) si è dimostrata incredibilmente solidale con il nostro progetto. Veder arrivare tutti quei pacchi da tutte le regioni d’Italia è stato incredibilmente emozionante: evidentemente una parte del messaggio che le nostre azioni si portano dietro è abbastanza forte da essere compreso e supportato da tanti skateboarders.
Volete ringraziare chi vi ha aiutato in questo progetto?
Si, vogliamo ringraziare Tutti quelli che ci ricordiamo e anche Tutti quelli che non ci ricordiamo (se ci siamo dimenticati di voi, SCUSATECI!, inviateci il vostro contatto e aggiorneremo la nostra lista dei “grazie millemila”): Grazie mille Blast Distribution, Zucka Bboys, Dumb Skateboards/Samurai Suicide, The Beer Corner/Watto’s Supply, Intrappola, Soncont, The Good push alliance, Skateistan, Bastard masters, Chef Family, Lambrothers Crew, Pigeon Family, tutti i local di MC, Sons of Blade, Skateboarding Finest, Spaghetto Child, Playwood Distribution, The Skateshop, Pleasure, Tony Marello, Settestrati shop, Pro Sport, Contaminated Shop, Eightball shop, Blunt/Ale’s shop, Pepper shop, Yeah Skateboards, Neanderthal Skateboards, Carletto Lalumera, Jacopo Carozzi, Pat di Blast Distribution, Cesare, Jeppo, Max, Bas, Jason… siete molti di più… continuate ad infamarci sui social che piano piano mettiamo insieme la lista completa!!!
Per maggiori informazioni sul progetto potete contattare direttamente Gaza FREEstyle Festival